Angoscia, violenza e bisogno d’amore

La formazione dell’associazionismo fra i mammiferi, a parte quello connesso alla cura della prole, la cui origine si perde nella notte dei tempi, viene sempre ricondotta al manifestarsi, nello habitat, di graduali e crescenti difficoltà di sopravvivenza per il singolo animale. Naturalmente, per il nostro antenato da cui sarebbe partito il processo di aggregazione, si fanno delle ipotesi più concrete, legate alla trasformazione graduale del suo habitat da foresta a savana. È chiaro che un animale che assomigli all’attuale scimpanzé non avrebbe alcuna possibilità di sopravvivenza in un ambiente quale la savana africana; nessuna arma, scarsa velocità, strumenti di attacco e di difesa insignificanti nei confronti delle potenti strutture dei predatori africani.La sopravvivenza della specie in queste condizioni fu dovuta alla gradualità con cui si svolse l’azione selettiva, che fornì ancora per molto tempo negli alberi un rifugio estremo ai nostri ancestori che erano però costretti dalle necessità alimentari a scendere spesso da essi, malgrado la paura estrema che tale atto comportava, giacché si esponevano così all’attacco dei predatori.

In linea di sintesi, si può dire che il meccanismo di sopravvivenza messo in atto, costituito dalla successione discesa-paura-fuga-rifugio, aveva il suo punto più debole nella distanza di avvistamento del pericolo che, data la enorme differenza di velocità nei confronti dei predatori, non permetteva al nostro progenitore australopiteco di allontanarsi dall’albero di quanto era invece richiesto dalle necessità alimentari. Ai fini che questo lavoro si ripromette, legati alla origine e alla funzione dell’angoscia, non è necessario descrivere le trasformazioni somatiche cui lo sforzo di sopperire a tali deficienze comportò, quali l’assunzione della funzione eretta, l’aumento della rotazione della testa, la perdita della coda, nonché la trasformazione del cavo orale intervenuto contemporaneamente allo sviluppo dell’associazionismo e della intelligenza per dar luogo alla parola. Ai fini che ci ripromettiamo, legati agli aspetti psicologici, possiamo partire dalla considerazione dell’enorme progresso che l’associazionismo fra i nostri progenitori portò alla funzione di avvistamento, progresso senza il quale la specie molto difficilmente sarebbe potuta sopravvivere al progressivo ritrarsi della foresta

Lo sviluppo di una rete di comunicazione fra diversi individui permise non solo il trasporto della informazione di avvistamento ma anche di molte altre informazioni ad essa connesse e quindi infine anche lo sviluppo della funzione di mutazione delle informazioni in entrata in quelle in uscita sulla base di un processo di valutazione cioè lo sviluppo del cervello che è l’organo deputato in ogni individuo a realizzare tale “commutazione”[1].

Naturalmente lo sviluppo dell’associazionismo riguardò non solo la funzione comunicazionale ma anche altre attività altrettanto importanti quali l’organizzazione della caccia e della difesa dalle aggressioni esterne, elementi che richiesero uno sviluppo organizzativo ed un coordinamento funzionale che si estese anche a tutte le interazioni fra i componenti del gruppo. Il gruppo raggiunse alla fine del suo processo formativo un livello di organizzazione così alto da costituire uno straordinario strumento di sopravvivenza e di dominio del mondo animale.

Che le cose si siano svolte in questo modo non sussistono ormai più dubbi, dopo tutto quanto è stato scoperto da quando Darwin per la prima volta ipotizzò la nostra discendenza dalle scimmie fino alle prove del DNA che hanno mostrato come lo scimpanzé sia il nostro più vicino parente nel mondo animale. Ma ciò non toglie che non sappiamo come le trasformazioni, sopratutto quelle psicologiche, siano avvenute, conoscenza che ci permetterebbe di risolvere importanti problemi inerenti l’origine e le interazioni degli impulsi che governano il nostro comportamento.

L’origine dell’aggregazione sociale viene dunque posta nella condivisione di una grande paura che portò ad una sinergia comportamentale e successivamente ad un graduale sviluppo della struttura organizzativa a fronte di concreti vantaggi in termini di sopravvivenza. Si costituì così l’orda primigenia di DArwin e Freud che è durata un tempo lunghissimo, la cui determinazione precisa è ovviamente assai difficile; vi sono studiosi che ritengono che sia di tre milioni di anni, altri meno, ma comunque mai molto al di sotto del milione di anni.

Tutto ciò che percepiamo + frutto di un processo associativo dovuto all’azione di forze aggregative che, quando raggiungono un certo livello, danno luogo alla fusione degli elementi componenti e alla formazione conseguente di una nuova entità che presenta qualità non riscontrabili nei componenti, così che questa fusione o sintesi o incollamento, come viene chiamato questo processo nelle varie branche della scienza, è un atto creativo, la magia della natura (come lo chiama Cornig). Vi sono alcune leggi che condizionano la formazione e lo sviluppo dell’incollamento, termine che abbiamo deciso di adottare, leggi che pertanto devono valere anche per la formazione dell’orda primigenia. esse sono:
1 – La inesistenza di elementi oppositivi, condizione che viene anche detta di sinergia e che nell’ambito della meccanica si traduce nella condizione di parallelismo motorio,
2 – L’accostamento dei componenti fino al raggiungimento del livello critico delle forze aggregative che determina la fusione (ricordiamo che le forze attrattive esercitate dai campi di forza gravitazionale ed elettromagnetico sono inversamente proporzionali al quadrato della distanza).Tale condizione determina l’irrigidimento dei composti ottenuti, cioè l’aumento della capacità di resistere all’azione distruttiva degli urti,
3 – l’iterazione del processo di incollamento dà luogo a sistemi sempre più complessi che assumono così la forma di reti stratificate secondo livelli di rigidità,
4 -Ogni componente è collegato con tutti gli altri componenti della rete, cosicché ogni variazione intervenuta nella dimensione della forza prodotta da un componente si riflette negli equilibri delle forze realizzati in tutti gli altri componenti della rete. Si dà così luogo ad una variabilità configurale dell’intero sistema che implica la formazione di retroazioni sul componente da cui si è originata la variazione. E’ nell’ambito di questa variabilità che, con tutta probabilità si crea la nuova qualità,
5 -la dimensione della forza prodotta da ogni componente è legata alla sua posizione nella struttura. La forza massimasi realizza nell’elemento collocato nella posizione baricentrica.

Tornando al problema dello sviluppo dell’orda primigenia, osserviamo che il processo evolutivo procede attraverso incollamenti successivi fra le molecole portanti l’informazione genetica (DNA) che la selezione abbia posto in posizione di sinergia con riguardo ad una funzione svolta da un gene. Ciò comporta il rafforzamento delle interazioni esercitate da questo gene nonché lo svolgimento di operazioni di riequilibratura in tutti gli altri componenti che possono dar luogo alla nascita di nuove qualità nonché a retroazioni regolative sul gene da cui la variazione si è originata.
Dunque, la presenza di un elemento che premi, in termini di sopravvivenza all’azione selettiva proveniente dall’esterno, deve necessariamente esistere perché si inneschi il processo evolutivo anche qualora il vantaggio iniziale sia estremamente piccolo.
In questo senso gli elementi da cui può essere partito il processo evolutivo sono:
1 -la presenza di una grande dimensione della paura, il cui prolungamento nel tempo ha consentito di mantenere attivo il processo evolutivo,
2 – La presnza di impulsi “empatici”, cioè donatari, quali l’impulso genitoriale e l’impulso sessuale sia omo che etero. Da notare però che l’incremento della dimensione di questi impulsi trovò un limite compatibile con una dimensione assai piccola dell’orda, quale quella di una grande famiglia. In una condizione di estrema tensione della lotta della sopravvivenza la quantità di energia che poteva essere consumata dall’orda per la protezione dei più deboli, in particolare dei bambini, aveva un limite critico oltre il quale veniva compromessa la sopravvivenza dell’intera orda.
3 – la presenza di una capacità associativa del cervello. Questa facoltà permetteva di realizzare legai empatici anche sul piano ontologico, così che il suo sviluppo genetico determinò un progresso anche in tale possibilità di formazione ontologica.

Il più importante sviluppo determinato dal processo evolutivo fu come detto, la permanenza della paura che consentì per conseguenza la continuazione del processo evolutivo. L’impulso così prodotto, trovando scarico nella partecipazione sociale, si caratterizzò come bisogno sociale che assunse, con il progredire del processo evolutivo, una dimensione pari a quella dell’impulso di conservazione individuale con cui in alcuni caratteri si identificava o che addirittura sopravanzava. La permanenza ed il perfezionamento organizzativo dell’orda comportò infatti, che la sua formazione non fosse più un fatto episodico, dovuto alla presenza immanente del pericolo, ma venisse assunta a livello genetico. Nella maggior parte degli animali un tale sviluppo comporterebbe la fissazione rigida di determinati comportamenti, come avviene per le api o per le formiche, ma in alcuni animali, particolarmente nei mammiferi, viene lasciata una certa area di libertà nel comportamento, area che viene coperta dalla intelligenza che porta alla scelta del comportamento più idoneo alle circostanze. In genere negli altri animali l’elemento situazionale che richiede un intervento intellettivo è abbastanza semplice, quale, ad esempio, lo sviluppo di paura di fronte ad un determinato pericolo, che da luogo alla fuga o alla estroflessione della paura in attività aggressiva, alternative per le quali sono sufficienti pochi bit che rappresentano l’intelligenza dell’animale.  Nell’uomo invece l’area di libertà del comportamento divenne molto più estesa per effetto dello sviluppo della capacità di commutazione che offrì al gruppo sociale una molteplicità di programmi operativi alternativi e che rappresentò l’arma vincente sviluppata dall’evoluzione, una volta che il meccanismo era stato innescato dalle necessità di avvistamento e aveva cominciato a migliorare le condizioni di sopravvivenza che la progressiva riduzione della foresta rendevano sempre più critiche.

Nell’orda, in definitiva, il comportamento aveva una flessibilità che ne consentiva un esteso adeguamento alle necessità ontologiche di un animale privo di armi naturali. Tuttavia occorreva ovviamente che sussistessero comunque dei vincoli genetici che, seppure non irrigidissero in poche alternative il comportamento, ne assicurassero lo svolgersi nella semantica della sopravvivenza.  L’evoluzione ha perciò premiato quella organizzazione sociale in cui la paura, che aveva determinato l’innesco del processo aggregativo ancestrale, sussisteva anche quando il pericolo non sussisteva, così da ripetere il suo effetto aggregativo sul piano ontologico, ma dando luogo a elementi organizzativi e comportamentali che potevano variare in relazione ai valori assunti da una serie di variabili ambientali in essere nei vari momenti evolutivi. È a questa paura, che sussiste anche in assenza di alcun pericolo, quindi incomprensibile se non ci si rifà al particolare processo evolutivo umano, che viene dato il nome di angoscia esistenziale, cioè connessa al semplice fatto di esistere. Poiché essa viene portata a scarico dalla integrazione nel sistema, ne possiamo concludere che essa esprime un bisogno di protezione che trova scarico in questa integrazione, esprime cioè un bisogno sociale, la cui frustrazione dà luogo all’angoscia, che esprime quindi l’insuccesso del processo integrativo.

Naturalmente, la condizione di aggregazione è solo una prima basilare condizione organizzativa; l’elaborazione della attività comportamentale del gruppo, l’estrinsecazione di quella intelligenza che risulterà l’arma vincente implica altre ed importanti stratificazioni organizzative che danno luogo a livelli crescenti di efficienza nella attività produttiva della sopravvivenza. Alla eterogeneità distribuzionale delle forze sociali, che esprime l’organizzazione del sistema, che le convoglia verso un determinato obiettivo, deve perciò corrispondere una eterogeneità della struttura psicologica degli individui e particolarmente della dimensione assunta dal bisogno di integrazione. È difficile stabilire se questa eterogeneità preesistesse all’aggregazione o sia uno sviluppo evolutivo ad essa connesso, rimane il fatto che si tratta di una condizione fondamentale perché la semplice aggregazione evolva verso forme organizzative più complesse. Pertanto il bisogno di integrazione non ha la stessa forza in tutti gli uomini, ma sopratutto non ha la stessa caratteristica di coniugazione attiva o passiva che definisce quindi due classi fondamentali, quella maggioritaria, delle masse, in cui l’impulso si esprime in termini di bisogno di protezione da parte della potenza del gruppo e quella minoritaria del potere, in cui l’impulso si esprime in termini di acquisizione della potenza del gruppo, che definiamo impulso dominativo o volontà di potenza. Possiamo anche indicare le due tipologie psicologiche come quella dei deboli e quella dei forti oppure, con Jung, degli introversi e degli estroversi ed è inoltre indifferente in questo contesto rilevare che le modalità comportamentali di questi impulsi sono soggette ad un certo livello di relativismo, nel senso che un individuo può comportarsi da debole nei confronti del più forte e da forte nei confronti del più debole.

Ora, il bisogno di integrazione delle masse esprime un impulso fissato rigidamente in termini genetici e, se non frustrato, dà luogo ad un tipo di aggregazione di particolare forza che, in altri settori, è stato denominato “incollamento” o “sintesi” e comporta la messa in sintonia dei flussi di energia dei componenti, così da formare una unità in cui i componenti perdono la loro individualità. Tale sintonia riguarda ovviamente, nel nostro caso, l’ambito psicologico, cioè l’ambito dei rapporti interpersonali, determinando una “dipendenza psicologica” che investe gli impulsi ed in particolare l’intelligenza, che ne è la propaggine ultima. Essa comporta il bisogno di ricevere “disposizioni”, senza le quali la massa è incapace di prendere qualsiasi decisione che non sia la sottomissione o la fuga, disposizioni che non sente come costrizione ma come risposta funzionale alla domanda di protezione. Ciò ci permette di dedurne che il bisogno sociale esprime qualcosa di più di una semplice richiesta di protezione, ma sia una richiesta di identificazione totale che permette di definirlo un “bisogno di amore”.

Ciò comporta, che l’ambito operativo lasciato all’intelligenza viene, nelle masse, ridimensionato, portando ad una rigidità del pensiero e del comportamento indotti dalla società e particolarmente dal potere. L’esigenza evolutiva che ha dato luogo a questo risultato è ovvia; la necessità di una unità di comando e quindi di un pensiero prevalente, unica alternativa, in condizioni di pericolo, all’ immobilismo o al caos. Gli individui forti del gruppo, invece, non sono sottoposti ai vincoli limitativi della intelligenza che impongono, come richiedeva Mussolini, di “credere, obbedire, combattere” e ciò ha l’importante conseguenza che, se noi escludiamo la piccola minoranza di uomini dotati di impulsi empatici, il loro comportamento, guidato da impulsi esclusivamente egoistici, può avere una assai più ampia variabilità in relazione ai valori assunti dalle variabili esterne al sistema.

Si può osservare che nell’orda non sussisteva un solo uomo forte, cosicché la condizione di indecidibilità sarebbe dovuta permanere per effetto della molteplicità dei loro giudizi, ma tale eventualità era scongiurata dalla concentrazione della dipendenza psicologica della massa in un solo uomo, il capo, condizione che non è solo dell’orda, ma è tipica di tutti i branchi cacciatori. Tale concentrazione ebbe una importanza estrema come elemento organizzatore e regolatore delle interazioni fra i componenti dell’orda, e dotava il capo di un grandissimo potere anche nei confronti degli uomini forti del gruppo. Quindi anche se potevano esistere, nell’ambito delle stratificazioni caratteriali, uomini dotati di libero pensiero, il potere decisionale ultimo apparteneva esclusivamente al capo.

Tuttavia, sarebbe errato ritenere che gli uomini forti del gruppo fossero ad esso legati solo per una comunanza di utilità acquisita esclusivamente sul piano razionale, senza alcun coinvolgimento emotivo. La continua presenza di un gravissimo pericolo costrinse infatti i nostri progenitori a non sprecare le energie disponibili nelle dispute interne e a concentrarle tutte sul pericolo esterno; portò cioè di necessità ad un alleggerimento degli impulsi dominativi interni, nonché gradualmente ad un coordinamento dell’iniziale parallelismo comportamentale dovuto alla comunione del pericolo, condizioni che portarono ad una completa integrazione nel sistema e alla completa scomparsa delle manifestazioni di dominio delle strutture di comando. L’unica differenza era costituita dal fatto che nelle strutture di potere la permanenza della condizione di coordinamento era legata alla permanenza del pericolo mentre nella massa aveva una origine genetica, indifferente alla presenza o mano del pericolo esterno.

Ho mostrato, in un precedente post, come la comunanza del pericolo determini, a livello della struttura reticolare del cervello, la comunanza delle memorie di allarme e di rassicurazione e come ciò comporti la trasmissione, da un partner all’altro, di tutta la struttura dei vincoli comportamentali di formazione ontologica. In tali condizioni si sviluppa un processo di identificazione, cioè di incorporazione in un unico “soggetto” che esclude qualsiasi manifestazione di dominio che può solo svolgersi fra un soggetto ed un “oggetto”. Ciò non significa che non si sviluppi una gerarchia nell’ambito del gruppo così formato, ma l’ordine che il più forte rivolge al più debole viene vissuto da quest’ultimo come una indicazione comportamentale che risponde alla sua domanda di protezione, come un elemento funzionale che indica la via per raggiungere l’obiettivo; in sostanza come una manifestazione di amore.

Perché il processo si svolga in questo modo, dando cioè luogo ad un processo di identificazione totale, quindi ad un rapporto di amore, non è sufficiente l’esistenza del pericolo esterno; occorre l’intervento di ulteriori campi di forza che si produce nell’ambito di un processo complesso che si svolge nell’infanzia fra genitori e figli in cui gioca un ruolo fondamentale l’impulso genitoriale. Fra i figli invece, il rapporto che si creava era di incollamento parziale, il che implica che il rapporto di integrazione che ne scaturiva era di un tipo dialettico, che implicava un equilibrio dei rapporti fra il dare e l’avere, cioè dei rapporti di scambio, dovuto alla comunanza del pericolo e all’azione regolatoria svolta dal padre. Ad eccezione quindi di particolari rapporti di amicizia che potevano essere mediati dall’impulso sessuale, sia etero che omo, essi non raggiungevano quella profondità di identificazione che costituisce il rapporto di amore, nell’ambito del quale il dolore dell’uno è il dolore dell’altro, il piacere dell’uno è il piacere dell’altro e non esiste competitività, non esiste confronto. Questa condizione di amore veniva invece realizzata da tutti nei confronti del capo, del grande padre, come aveva per primo intuito Freud.

Cionondimeno, la competitività fra i membri del gruppo, non costituì per l’orda un fardello che ne minasse l’efficienza, tutt’altro, in quanto veniva mediata dai risultati ottenuti nella guerra esterna per la sopravvivenza, di cui quindi costituiva elemento di incremento della produttività. Alla abilità mostrata nella caccia doveva quindi corrispondere un aumento di importanza che si manifestava con l’acquisizione del premio più ambito, la soddisfazione sessuale. Il desiderio sessuale doveva pertanto essere necessariamente e continuamente stimolato da nuovi oggetti, specialmente se essi erano desiderati dagli altri (terzismo sociale del desiderio). Ciò per determinare la sua strutturale perenne insoddisfazione che preservava la funzione di stimolare l’attività produttiva. Corrispondentemente la forma assunta dall’impulso sessuale femminile doveva concorrere a realizzare questi obiettivi. Nelle femmine infatti l’impulso sessuale confluì integralmente in quello sociale, così che l’uomo di successo nella caccia divenne l’oggetto privilegiato del desiderio femminile.

Quindi nell’ambito dell’orda doveva sussistere una estrema mobilità dei rapporti sessuali che manteneva viva una intensa competitività, condizione che, pur realizzando l’obiettivo della massima efficienza produttiva del branco, non doveva portare a modificazioni del livello di importanza, vale a dire del livello di integrazione, tale da ledere la condizione di incollamento dei soccombenti. Occorreva perciò che, pur essendo sentite appassionatamente dai membri dell’orda, le variazioni dei livelli di importanza conseguenti alla competitività mediata non potessero risvegliare l’angoscia esistenziale che trovava sfogo nel rapporto sociale. In definitiva, lo scarico dell’ansia esistenziale non era messo in gioco, se non marginalmente, dagli accadimenti sessuali, come invece accade oggi in cui l’angoscia esistenziale trova il suo scarico in un rapporto individuale e rinasce quindi violentemente alla sua rottura.

Da quanto abbiamo fin qui illustrato, emerge l’importanza centrale della figura del padre e del rapporto di amore che lo legava all’insieme dei figli, cioè dei membri dell’orda, conseguenza della presenza dell’impulso genitoriale. A differenza di quanto avveniva fra i figli, la comunanza di un oggetto del desiderio non comportava la competizione nella soddisfazione, ma la comunanza anche in quest’ultima. Quindi, pur nell’ambito di una indubbia prevalenza possessoria di tutte le femmine dell’orda, era assente nel capo la richiesta di esclusività e la gelosia per la formazione di legami delle femmine con altri membri del gruppo, ma anzi il governo di tali rapporti rappresentava un esercizio di potere da cui traeva soddisfazione e che poteva venire esercitato in termini di stimolo dell’impegno di tutti i componenti dell’orda nella attività di caccia.

L’introiezione dell’impulso sociale era influenzato dal fatto che l’esercizio del potere comportava non solo la protezione nei confronti del pericolo esterno, ma anche contro la sopraffazione interna. Tale azione regolatoria si manifestava anche nell’ambito sessuale in virtù del fatto che il capo era la fonte di attrazione massima non solo per le femmine, ma anche per i maschi, anche se, ovviamente, sul piano dominante dell’incollamento sociale. Egli era perciò, con i termini di Girard, il mediatore ultimo del desiderio.

Niccolò Machiavelli, commentando le ricostruzioni storiche di Tito Livio ed in particolare gli avvenimenti che diedero luogo in Roma alla nascita del tribunale del popolo, faceva risalire all’ accordo di solidarietà fra il potere e la massa con esso raggiunto, unico esempio nella storia, l’origine della potenza di Roma. Si trattava comunque dell’instaurazione di un rapporto di integrazione di tipo dialettico, poca cosa rispetto alle conseguenze della connessione psicologica di identificazione con il capo. È qui il segreto della enorme potenza infine raggiunta dall’orda. Immaginate quest’orda che agisce mobilitando tutte le sue forze come fosse un solo animale dotato di centinaia di mani, ognuno sapendo con precisione cosa doveva fare, con una sicura linea di comando, organizzazione che più perfetta non poteva essere, perché è in questo incollamento profondo, in cui tutti i flussi di energia sono sintonizzati pur essendo gerarchizzati che l’organizzazione assume la sua massima potenza.

Ho già avuto modo di mostrare, in altro post, come questa stupenda struttura si sia sfaldata in seguito allo sviluppo della tecnologia che ha comportato la fine del pericolo esterno, facendo mancare l’azione selettiva e arrestando quindi il processo evolutivo. Tale condizione liberò innanzi tutto gli uomini “liberi”, cioè già per natura esenti dai vincoli genetici del bisogno d’amore, anche dai vincoli ontologici imposti dal pericolo esterno e successivamente determinò anche, in seguito all’aumento della popolazione conseguente alla disponibilità del cibo, la sterilizzazione della possibilità di regolazione svolta dal capo, di cui conosciamo la estensione limitata.

La rottura del rapporto padre-figlio rappresentò un vulnus irrimediabile al sistema innescando una condizione perenne di angoscia e quindi di dolore nella massa. La contemporanea sostituzione dell’elemento costrittivo a quello funzionale nell’ambito dei rapporti fra le stratificazioni gerarchiche, dovuto alla liberazione dai vincoli ontologici della volontà di potenza, rese difficile la formazione di gruppi ribelli che non fossero espressione della competitività interna al potere,perché l’organizzazione richiede la presenza del forte, senza di esso la massa rappresenta una materia amorfa in preda alla paura, incapace di una azione unitaria. La massa ha bisogno del suo nemico, come meravigliosamente espresse Petrarca:

Passa la nave mia, colma d’oblio/ per aspro mare, a mezza notte, il verno/ enfra Scilla e Cariddi; ed al governo/ siede il signore, anzi il nemico mio./ La vela rompe un vento umido, eterno,/ di sospir, di speranze e di desio,/ pioggia di lacrimar, nebbia di sdegni/ bagna e rallenta le già stanche sarte/ che son d’error, con ignoranza attorto.

In tale contesto fu di particolare interesse del potere non consentire, la ricostituzione del rapporto genitoriale e degli altri rapporti empatici di amicizia, nella forma assunta nell’orda, nell’ambito dei piccoli nuclei familiari che costituirono le cellule elementari della struttura sociale che sostituì l’orda. Ciò per la loro grande capacità di superare qualsiasi ostacolo all’aggregazione e quindi di ricostituire gruppi oppositivi al potere sopraffattore, cioè per la loro enorme potenzialità rivoluzionaria. L’operazione fu facilitata dal fatto che in tali piccoli nuclei familiari il padre naturale era con la massima frequenza un uomo debole, quindi succube dei comandi del potere e che poteva trovare soddisfazione dalla piccola sfera di dominio che gli era riservata in tali piccoli nuclei familiari, condizione inesistente nel capo dell’orda che si trovava in una condizione aprioristica di superiorità.

L’approfondimento di questo argomento, assai complesso e che coinvolge importanti mutamenti degli equilibri istintuali, non è possibile in questa panoramica complessiva del rapporto fra l’esplosione della violenza e la frustrazione del bisogno di amore [2]. Particolarmente complesso e costituente il nucleo centrale della struttura repressiva quindi indotta fu l’inserimento di una componente dominativa nel rapporto fra il padre e il figlio. L’impulso genitoriale nasce infatti già con una aprioristica condizione di identificazione nel figlio ed ha già in se stesso gli elementi regolatori del rapporto che impediscono che sia produttivo di qualsiasi danno. Fu pertanto necessario trasformare in nocivi al figlio certi elementi di contatto invece necessari al perfezionamento del rapporto, indurre la necessità di imposizioni limitative della libertà per proteggerlo dalla violenza determinatasi al di fuori della famiglia, investire il padre della caratteristica di educatore che in sostanza comportava l’induzione all’ ubbidienza alle regole indotte dal potere, per raggiungere l’obiettivo dell’inserimento della componente dominativa anche nel rapporto genitoriale, condizione che indusse una lesione nel rapporto e ne distrusse la capacità rivoluzionaria.

Dunque, come conseguenza della crisi dell’orda, il potere venne assunto dagli uomini liberi dai condizionamenti identificativi da cui nascono le istanze empatiche o etiche, uomini dunque per i quali quindi l’altro è un oggetto. Essi esibiscono un comportamento egoistico non piegato, come nelle masse, dalla paura e dal bisogno di protezione ed incarnano la figura di Zarathustra che così si autodescriverebbe: Ignoro quanto atroci siano i battiti cupi della paura. E quanto spossante possa essere la tenerezza e lo stringersi smarrito del cuore nel momento della pietà. Momenti inutili, contorti dell’uomo che piange.

La volontà di potenza di questi uomini è stimolata da qualsiasi oggetto esterno che solleciti un campo di forze costituito dal riconoscimento di specie, quindi da qualsiasi uomo che si frapponga alla loro smania dominativa allo stesso modo in cui un grave non può evitare di essere attratto da un altro grave e di precipitarvisi contro se non esiste un terzo grave che devi la traiettoria e che nel caso dell’impulso dominativo è costituito dal pericolo esterno. La volontà di potenza quindi non ha limiti, tende al potere assoluto su tutti i suoi oggetti.

Secondo  certi  pensatori,  è  il  capitalismo  che  realizza   questa condizione. Dovendo infatti l’impresa realizzare il  massimo profitto in condizioni di competitività estrema, suoi eventuali comportamenti etici  equivarrebbero   alla   sua  fine,  così  che essa è in un certo senso obbligata ad adottare un comportamento   egoistico. Da qui alcuni  pensatori  (Marx, Engels)  hanno  tratto la conseguenza che l’abolizione  del  capitalismo  e della proprietà privata che ne è alla base indurrebbe ad un mondo più pacifico e giusto. Si tratta di una visione assai errata, come è stato mostrato  dalla storia, visto che la guerra intraspecifica affligge l’umanità dai più antichi tempi assai prima della nascita del capitalismo. È il potere in qualsiasi forma che ricerca il suo massimo profitto e in condizioni  di  competitività estrema,  così che  chi  si  pone  dei  limiti  è  esposto ad essere eliminato.  Certamente  il  potere  economico  ne rappresenta una forma  nuova, più subdola, perché la individuazione  dei  centri  di potere  è  evanescente  e perché  assume, attraverso la moneta,  una  forma  liquida  e  frammentabile, che le permette di infiltrarsi dovunque,  con  una conseguente capacità di corruzione che la fa assomigliare ad una droga dalla cui dipendenza non può sottrarsi né  la  massa  che  vi  trova elementi di sicurezza, di sostituto del padre, né  gli  uomini  di  potere che ne valutano la potenza che è capace di attribuire ai suoi possessori.

Consideriamo adesso il destino della massa dei deboli, della stirpe serva  di  Abele.  Anche nella  massa  l’impulso   fondamentale   è egoistico, ma si manifesta  in  una  forma  passiva, di bisogno dell’ altro.  E’ un impulso fortissimo, senza  la  cui  soddisfazione l’uomo non  può  vivere,  come  non  può vivere  senza  respirare.   E  si concentra  sull’ uomo  forte  che  non può essere sostituito, se non debolmente, da un   debole.   Naturalmente,   in   condizioni   di frustrazione   del   bisogno   d’ amore,  i singoli  individui  possono cercare  di  ottenere  la soddisfazione del loro bisogno da parte di un   altro   uomo,  trasferimento  della   dipendenza  che  in  effetti costituisce, come ben rilevò Jung,  l’elemento  più importante della cura psicanalitica, ove assunse la denominazione di  transfert.  Ma quando  ci  si  riferisce all’intera massa, la soluzione in  realtà non esiste se non in via provvisoria, per chi si lascia sedurre dal canto delle sirene sostituite, nella fattispecie, dagli uomini forti in cerca di seguaci per le loro battaglie, cui seguirà poi la disillusione,  perché il  distacco   fra   il  potere  e  la  massa  è   la   conseguenza  del mutamento strutturale del sistema che ha comportato la rottura del legame di solidarietà che li univa.

Ovviamente, la indipendenza del potere dalla massa è conseguenza del fatto che la produzione dei beni poté essere realizzata da una quota assai piccola di lavoratori estratti dalla massa e che ciò malgrado, per lo sviluppo della popolazione, la quantità dei beni risultò insufficiente a coprirne i bisogni. Ciò determinò una condizione di concorrenza per l’acquisizione del posto di lavoro, concorrenza che ne abbassò il tasso di remunerazione lasciando così agli uomini forti il potere di distribuire le risorse lungo una scala gerarchica (in primis nella forza militare) che divenne così una gerarchia di incollamento al potere, struttura portante della loro potenza. E’ però evidente che in ambiti di popolazione limitati, quali certi paesi in cui lo sviluppo economico ha portato ad un certo livello di reddito tutta la popolazione, l’ulteriore aumento della produzione dei beni deve essere necessariamente assorbito dai lavoratori, non sussistendo la concorrenza della massa dei disoccupati e ne consegue un ridimensionamento del potere distribuzionale del capitale. E’ per questo motivo che il capitalismo richiede gli ampi spazi, la globalizzazione, cioè la liberalizzazione dei movimenti di capitali e materiali per tutto il mondo, che permette di fare entrare nel gioco centinaia di milioni di disoccupati e sottoccupati che rappresentano per le masse dei paesi sviluppati uno tsunami devastante l’industria ivi localizzata, fonte della loro ricchezza.

Tornando a considerare gli effetti nella massa della rottura del rapporto simbiotico con il potere, occorre innanzi tutto rilevare che, data la complessità della struttura stratificata del sistema, a sua volta connessa alla variabilità caratteriale estrema degli individui, gli effetti furono molteplici ed interagenti, dotati cioè essi stessi di una notevole complessità. Il ripetersi della frustrazione nei confronti del potere, dovuto al fallimento ripetuto del transfert, portò allo sviluppo di un transfert metafisico, cioè alla identificazione del capo in una entità posta al di là del mondo fisico, in Dio, concetto la cui nascita era certamente pre-esistente alla crisi dell’orda, ma che in quella occasione assunse un rilievo ed una importanza del tutto particolare. Questo transfert ha caratteristiche particolari di resistenza, in vista della proiezione metafisica anche della gratificazione promessa, ma non escludeva la presenza di un mediatore umano che trasmettesse i comandamenti del Dio condizionanti il premio, giacché è in questa funzione che si sostanzia la necessità del capo. Senza ordini la massa è come l’equipaggio di una nave senza nocchiero, incapace di definire la rotta; la figura del Dio, padre e capo, priva di qualsiasi elemento di comunicazione, sarebbe priva di senso e di conseguenze. Ma la mediazione era ancora una condizione di potere che poté utilizzare la maggior forza connessa al supporto metafisico per indurre una rivoluzione nella struttura degli impulsi, realizzando, come già accennato, la proibizione di quegli elementi di comunicazione che permettevano l’estrinsecarsi degli impulsi empatici, così inibendo la loro capacità di dar luogo a raggruppamenti alternativi, quindi rivoluzionari, in quanto coinvolgenti anche uomini forti, dotati della capacità di comando, su cui poteva convergere il transfert.

La struttura degli impulsi che fu così ottenuta rese più difficile la realizzazione del transfert della dipendenza di parte della massa da un uomo forte all’altro e consentì quindi una diminuzione dei conseguenti conflitti interni che dovettero rendere ben triste la vita dell’orda nei tempi immediatamente successivi alla sua crisi, così che la condizione raggiunta dovette sembrare una liberazione anche se implicava un rafforzamento ed uno stabilizzarsi della sopraffazione esercitata dal potere.

L’inserimento di una componente di dominio nel rapporto padre-figlio all’interno della famiglia cellula, a cui abbiamo già accennato, costituisce un caso particolare di un processo più generale, dove la particolarità è dovuta alle caratteristiche empatiche genetiche dell’impulso genitoriale che sono donatarie. escludono cioè la componente dominativa. In questo caso, come abbiamo già visto, si richiese un mutamento della struttura dei valori attraverso cui l’azione dominativa risultasse necessaria per l’integrazione dei figli. Ho anche già accennato a tale processo più generale in cui l’inserimento avviene nell’ambito di tutti i rapporti sociali e adesso desidero riprenderlo dal punto di vista della componente sociale soccombente, cioè della massa e sopratutto nei confronti del rapporto che la massa instaura con il capo.

La crisi dell’orda comportò la sostituzione, ad un processo di unificazione consistente nel coordinamento, cioè nell’assegnazione di una eguale direzione di movimento a tutti i flussi di energia, un processo dialettico, in cui esistono, in ciascun compnente el gruppo, due flussi di energia agenti in direzioni contrastanti che possono essere rappresentati in termini di dare/avere, dove per l’individuo debole il dare è costituito dall’accettazione del dominio mentre l’avere è costituito dalla ricezione della protezione. Il processo dialettico consiste in una attività di scambio resa possibile dal fatto che entrambi i flussi agiscono su uno stesso capo di forza dolore-piacere in cui gli effetti delle due forze sono sommabili algebricamente. Tale processo è influenzato dall’esistenza dell’illusione cioè dalla modificazione della percezione della realtà nonché dalla speranza che è una modificazione della probabilità di un evento futuro. Si tratta di soddisfazioni autoctone dell’impulso di amore che danno luogo ad un aumento della soddisfazione connessa al flusso protettivo. Fintanto quindi che quest’ultimo, sia pure sopravalutato per effetto dell’illusione, non viene azzerato, il suo effetto di riduzione dell’angoscia risulta superiore alla sofferenza indotta dalla sottomissione al dominio, così da dare un risultato complessivo di piacere e quindi permettere la associazione. Se la differenza supera una certa dimensione critica, si verifica il fenomeno detto del cedimento plastico secondo cui il dominio non viene semplicemente sopportato in virtù del beneficio protettivo (come invece avviene nel cedimento elastico) ma, in quanto strumento di raggiungimento del piacere, diviene esso stesso produttore di piacere.

Diciamo che la sottomissione è introiettata nell’impulso sociale e che le manifestazioni di questo impulso non differiscono dalla condizione di sottomissione che si sviluppa nei confronti del padre nella condizione di incollamento profondo. Tuttavia, una differenza sussiste in quanto, malgrado la sottomissione sia vissuta come una produzione psicologica propria, nell’impulso creato dal processo dialettico è incorporata anche la paura della disobbedienza che farebbe perdere la protezione, condizione che invece non sussiste  nell’impulso che dà luogo alla identificazione dove il figlio si sente accettato per quello che è, senza condizioni. Ciò è sufficiente per indurre un timore del padre che, seppure vissuto sul piano subliminale, rompe l’unità simbiotica del rapporto fra genitori e figli.

Dunque, fintanto che da parte del potere sussisté un interesse al rapporto con la massa, sia pure non così estremo come nelle fasi più delicate della vita dell’orda, il bisogno sociale delle masse poté trovare soddisfazione, sia pure con il contributo dell’illusione e del cedimento plastico che permisero di non avvertire la componente costrittiva del rapporto, ma con la formazione di una condizione di timore che, pur manifestandosi suun piano subliminale, distrusse l’unità granitica dell’orda.

Ritengo che una condizione del genere si sia verificata già nella vita dell’orda per la necessità, in cui può essersi trovata, di aumentare la sua dimensione ben oltre la dimensione sostenibile dall’impulso genitoriale, cosicché nell’ambito della affettività rivolta a tutti i componenti dell’orda, abbia giocato un suo ruolo l’illusione. Una condizione del genere si è poi certamente verificata nell’ambito della organizzazione tribale che fece seguito alla rivoluzione metallurgica che, con il perfezionamento estremo delle armi, rese la caccia assai più agevole che nell’orda. Tuttavia, nella condizione pre-agricola la caccia costituiva ancora una rappresentazione corale del gruppo, in cui la gerarchia coincideva con la bravura nella produzione dei beni e, data la dimensione ancora contenuta, potevano svolgere un ruolo importante gli impulsi empatici. Infine, una condizione del genere si verifica ancora oggi, nell’ambito delle stratificazioni sociali più prossime al potere centrale, ove l’interesse di quest’ultimo è legato al fatto che queste strutture, in particolare l’apparato militare, sono un indispensabile strumento per il mantenimento del dominio.

Consideriamo adesso cosa succede se l’interesse del potere al mantenimento del rapporto di solidarietà con la massa cessa del tutto. Un esempio che illustra bene tale condizione è quello di una multinazionale  che, inseguendo il suo massimo profitto sposta la produzione nei paesi a basso costo della manodopera lasciando privi di reddito i lavoratori della fabbrica che viene chiusa. Onde valutarne le conseguenze occorre fare una premessa. Ogni membro della massa non è ovviamente in grado di comprendere quanta parte della sua struttura istintuale, dei suoi valori, dei suoi convincimenti, sia in lui travasata dal suo intorno sociale, in cui è nato o in cui si è posto per effetto di transfert. E non può neanche ovviamente avvertire quanta parte del suo sentire sia dovuto all’illusione o al cedimento plastico. Questa impossibilità è stata sostenuta da molti pensatori ed è addirittura contenuta nelle prime scritture che si conoscano, nei versi dei Veda, libri sacri dell’induismo, che risalgono a diverse migliaia di anni prima di Cristo. E anche Cristo riteneva che fosse più facile discernere il fuscello nell’occhio altrui che la trave nel proprio. Oggi questa impossibilità costituisce un principio fisico fondamentale, il principio di relatività che esclude la possibilità di una autoreferenzialità, cioè della percezione della propria condizione di stato. Tuttavia ciò che un uomo non può vedere in se stesso, può vederlo in un altro uomo se quest’ultimo lo possiede in più alto grado.

Vi sono individui che, in risposta all’aumento della sopraffazione giungono alla negazione completa della realtà, in una condizione che viene considerata una malattia mentale, la paranoia. L’individuo appartenente alla massa identifica questa condizione estrema perché assume aspetti diversi dalla sua condizione, senza rendersi conto che tutta la sua vita è imbrigliata in una fitta rete di illusioni e di inganni. Allo stesso modo vi sono individui che, all’aumentare della sopraffazione, parossisticamente continuano a trovare godimento nella sottomissione, condizioni che la massa identifica in coloro che superano determinati livelli di cedimento come una perversione, il “masochismo” ma che non avverte in se stessa anche se tutta la vita sociale odierna è basata sulla diseguaglianza del dare-avere nei rapporti di scambio. In realtà, illusione e cedimento sono aspetti di uno stesso fenomeno; nel rapporto di scambio l’illusione amplifica la sensazione di protezione  e giustifica quindi soggettivamente una contropartita di sottomissione di un livello che ad uno osservatore esterno appare sproporzionata, cioè masochistica.

Paradossalmente, l’ambito sessuale, dove con più evidenza viene riconosciuto il masochismo, è quello in cui questo può effettivamente raggiungere l’obiettivo di creazione di un legame perché in tale ambito esiste certamente, se il rapporto si innesca, un interesse del dominante a che in dominio sia desiderato dal dominato, perché in tal modo fornisce alla parte sadica quel ritorno del desiderio che in altra occasione ho mostrato essere fondamentale per determinare lo scarico nel rapporto di amore. Purtroppo l’attrazione sessuale è soggetta a decadimento e ciò può spingere i partner ad innalzare il livello della violenza per cercare di ritrovare il piacere perduto. Il gioco diviene allora estremamente pericoloso.

In linea generale agli alti livelli di frustrazione del bisogno sociale si determina l’emergenza della grande paura, dell’angoscia, che ne è il motore, il che porterebbe allo sviluppo di una condizione depressiva, espressione dell’opzione di default della paura, la fuga che in questo caso è fuga dalla vita, se non si verificasse lo scontro con l’impulso di conservazione individuale. In ogni modo, che in casi estremi tale condizione porti alla morte, sia direttamente, come suicidio che indirettamente, tramite le innervazioni psicosomatiche, particolarmente attraverso la depressione del sistema immunitario, non sembra che si possa oggi mettere in dubbio. Il mantenimento dell’angoscia non è però sopportabile da una molteplicità di caratteri che imboccano la strada  della distorsione dei termini dello scambio attraverso le manifestazioni paranoidi dell’illusione e del masochismo. In questi casi il passaggio per la fase depressiva è addirittura virtuale perché esiste una “paura di provare paura” che agisce a livello subliminale, quindi non avvertibile a livello di coscienza.

La esaltazione della illusione e del masochismo per dar luogo allo scarico dell’angoscia esistenziale, che può giungere fino all’esaltazione appassionata della schiavitù, è però tipica delle stratificazioni più deboli della massa ed è quindi particolarmente sviluppata nella componente femminile. Nella maggior parte degli uomini, oltre un certo livello di frustrazione del bisogno di amore, si realizza una condizione di “cedimento elastico” in cui al cedimento, che comporta l’accettazione della sottomissione, si accompagna la formazione di energia reattiva nei confronti del mondo esterno e particolarmente del padre-capo. Come sappiamo, la frustrazione del bisogno di amore si traduce nella formazione di una grande paura, che abbiamo definito angoscia e la paura ha come comportamento di default la fuga che, se impedita, si trasforma in aggressività, processo che vine definito “estroflessione della paura”. Tale energia reattiva viene mantenuta a livello potenziale dalla paura che il gruppo comunque esercita.

Questa violenza nei confronti dell’intero sistema, mantenuta a livello potenziale dalla paura, si manifesta però nell’ambito dei singoli rapporti interpersonali ogniqualvolta la condizione di superiorità libera dalla paura, inasprendo la competitività. L’esercizio di questa violenza richiede inoltre che l’azione violenta si manifesti fuori del controllo del gruppo che, sviluppando la paura, bloccherebbe l’aggressività. A questo proposito occorre però ricordare cosa comporta il diagramma del gradiente all’avvicinamento dell’impulso di rifiuto, quindi della paura, ottenuto dagli studiosi americani Dollard e Miller.[3]. All’allontanarsi della fonte della paura, questa diminuisce con grande rapidità e questo, ricordiamo è qualcosa che agisce sull’impulso non sull’intelligenza. Se un individuo si astenesse dal commettere un reato per la considerazione della punizione cui va incontro, se ne asterrebbe in ogni caso se fosse sicuro della scoperta, ma se ciò che lo ferma è un fatto istintuale, non razionale, quale la paura, una volta che il controllo del gruppo è fisicamente lontano, diminuisce la paura e con essa il freno inibitore. È questo il motivo per cui la frequenza di certi delitti “passionali” è indifferente alla dimensione della pena. Vi sono anche individui in cui l’aggressività potenziale in cui si trasforma l’angoscia esistenziale esplode eludendo o superando la paura del gruppo, ma si tratta di casi rari che la massa fa rientrare nella follia, come avviene per l’eccesso di illusione nella paranoia e l’eccesso della componente del dare nel masochismo. Ma quando la frustrazione del bisogno sociale raggiunge valori estremi, l’aggressività accumulata può esplodere. Occorre a tal fine che la massa ottenga quello che strutturalmente le manca, cioè un capo che rappresenti l’acciarino che innesca l’esplosione. In questo caso trova facilmente ciò che cerca perché il suo bisogno di scarico del rancore può coincidere con la volontà di potenza di un uomo forte.

La reazione è quindi sempre soggetta ad una operazione di transfert ad un nuovo capo. Questi dovrà mediare la rabbia della massa e indicare la direzione di sfogo. Questa non può essere, ovviamente, quella del suicidio, anche se ciò in qualche caso è avvenuto (vedi il caso del predicatore americano Jim Jones, fondatore della comunità religiosa “Tempio del Popolo”), ma che richiede una pre-selezione di individui caratterialmente predisposti a questa soluzione.

Il capo può indicare un individuo o una minoranza estratti dalla popolazione, ma la soluzione che più si attaglia a soddisfare la volontà di potenza del capo è quella di indicare un nemico esterno, di non facile eliminazione. Tale soluzione ha anche il vantaggio di ricreare una sinergia comportamentale che ricrea il patto di solidarietà interno ed elimina, sia pure con la collaborazione dell’illusione nel ricevere e del masochismo nel dare, almeno parzialmente la frustrazione del bisogno di integrazione.

Ma la situazione in un certo senso più interessante ai fini analitici si verifica quando viene indicato un individuo “estratto” dalla popolazione, la cosiddetta “vittima sacrificale” come l’oggetto dello scarico della violenza, sopratutto quando viene associato più strettamente alla figura del padre, punto centrale, baricentrico, di tutto il processo connesso alla frustrazione del bisogno d’amore che viene, sia pure in via subliminale, inconscia, vissuta come l’abbandono da parte del padre, oggetto centrale di tale bisogno.

Ricordo, infatti, che il bisogno sociale non costituisce una semplice richiesta di protezione, ma vi è associato un bisogno di amore che solo dal genitore può provenire. Pertanto, anche se la rabbia associata alla frustrazione del bisogno sociale può superare la componente affettiva di tale bisogno e portare all’uccisione del padre o della vittima sacrificale che ne è l’avatar, una volta che questo viene distrutto (ma secondo Freud è anche sufficiente che il padre muoia per cause naturali) si fa risentire il vuoto affettivo e con esso la nostalgia ed il rimpianto.

In alcune tribù africane situate fra l’Egitto faraonico e lo Swaziland, studiate da René Girard, l’attività produttiva, anziché sul piano agricolo, si indirizzò sull’allevamento degli animali, quindi senza realizzare quella dimensione della produzione e della popolazione che permise la separazione della società in classi, il patto di solidarietà nella classe dominante, la istituzione della schiavitù, condizioni tipiche del villaggio agricolo, mentre la condizione di isolamento impediva anche la possibilità di scarico nella guerra alle tribù vicine della violenza accumulata nel sistema.

In queste tribù l’uccisione del re veniva realizzata periodicamente, ritualizzata come atto di liberazione dell’aggressività accumulata dall’intero corpo sociale.Ciò evidentemente comportava che la figura del re fosse soltanto simbolica, non dotata di reali poteri, fosse cioè la vittima sacrificale, la cui uccisione fosse la ripetizione rituale di più antichi avvenimenti, una traslocazione paranoica, cioè illusoria resa possibile dal fatto che l’obiettivo reale della aggressività era coperto da una grande paura cui contribuiva l’esperienza traumatica del massacro.

È assai interessante considerare il fatto, su cui si sofferma Girard, che la vittima oggetto della aggressione è anche sacra, il che mostra che il sacrificio estrinseca l’ambiguità della figura dell’autorità, contemporaneamente oggetto di amore e di odio, anche se ciò viene mascherato nell’impulso di sintesi. È come se il sacrificio del padre, scaricando il rancore per l’amore negato, riaprisse le porte a questo amore, svelandone il feroce desiderio. È pure interessante rilevare che anche il Cristianesimo ha il suo nucleo centrale in un sacrificio, quello del figlio di Dio, ripetuto ritualmente nella più importante cerimonia religiosa, su cui poggia paradossalmente il messaggio di amore che porta alla riappacificazione, alla ricucitura di una immaginaria ferita dovuta ad un originario peccato. La soddisfazione connessa al sacrificio è quindi complessa, perché in esso vengono soddisfatti, come nel mito di Edipo, impulsi fortissimi e contrastanti che solo la particolare condizione del sacrificio rende sinergici, impulsi centrali nella formazione della nostra cultura.

Dunque, vi sono nel mondo uomini che giocano fra di loro una partita competitiva e che usano a tal fine le masse come i bambini giocano con i soldatini di piombo; le portano al massacro allo stesso modo di come gli allevatori portano le mandrie al mattatoio, ma con la differenza che le masse vi si recano cantando e ballando come i topi seguirono nel fiume il pifferaio magico. Perché la massa non lo avverte, ma è schiava di questa razza padrona che ne possiede anche l’anima; la sua libertà, come già ha osservato Marcuse,[4] è solo quella di potere cambiare padrone. Perché l’appartenente alla massa riceve sempre dal suo contesto sociale, quello del sottogruppo in cui sia più alto, sia pure su un piano illusorio, il livello di gratificazione, la struttura della sua cultura, le cose cui deve credere, i comandi cui deve obbedire. Vi sono molte fedi, fra le più importanti, che non richiedono alcuna giustificazione; sono quelle indotte nella fase infantile di imprinting. Di altre si dà una pseudo-giustificazione (quella che Freud chiama razionalizzazione secondaria) che ha la sola funzione di inquadramento della fede o del comando in un ambito psicologico in cui l’uomo deve sentire come produzione del suo cervello ciò che invece gli proviene dagli impulsi e dall’interazione con la struttura sociale. Ma la capacità critica è interamente bloccata; qualsiasi baggianata può giustificare qualsiasi comando. Ad esempio si può dire che la differenza nel costo dei fattori della produzione fra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, può essere compensata da una maggiore produttività. Chi se intende di queste cose si rende conto in primo luogo che l’ordine di grandezza delle due cose non è confrontabile, in secondo luogo che non c’è alcun motivo perché la produttività debba essere una proprietà esclusiva dei paesi sviluppati. E gli operai si renderanno conto che, quando la produzione dei beni sarà stata trasferita in altri paesi, non vi saranno più i beni per pagare i loro stipendi e non rimarrà che elemosinarli dai nuovi padroni.

La repressione di un impulso comporta l’impedimento allo stimolo di raggiungere la coscienza e per tal via il centro di scarico, operazione che Freud denominò “censura” e che la teoria dell’organizzazione riconduce ad una “paura di risvegliare la grande paura”, agente a livello subliminale. In tali condizioni l’impulso è come inesistente e la reale condizione di stato è inavvertibile per il principio di relatività. Ma l’arte è in grado di ingannare la censura mediante delle immagini così mascherate da sfuggire alla possibilità di intercettazione della censura, ma non a quella del centro di scarico ove la connessione con il lato mascherato è inscritta indelebilmente nel gene. Il piacere provocato dall’arte, non è aperto a tutti gli uomini, occorre che la censura abbia qualche falla ed è possibile che l’origine del piacere indotto ricada sotto gli effetti della censura e non arrivi alla coscienza. Ma per chi sa gustare l’arte il piacere vi arriva certamente anche se la causa resta ignota ed ha un sapore, un profumo speciale. Vorrei perciò, a chiusura di questo mio scritto, farvi vedere un filmato di grande bellezza, perché sono sicuro che esso parlerà a molti più di qualsiasi argomentazione scientifica.

Si tratta della scena finale del film “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?” di Ettore Scola, film tutto sommato non eccezionale, malgrado i bellissimi panorami che mostra e la partecipazione di quel mostro di bravura che fu Alberto Sordi; film inoltre banale nel suo principale obiettivo, di irridere al provincialismo arrogante di certi italiani danarosi. Ma è nel finale, che vede l’intervento di Nino Manfredi, che il film, per così dire, cambia registro. In questo finale l’amico ritrovato, divenuto stregone di una tribù, malgrado il desiderio di ritornare in patria, non riesce ad abbandonare la sua tribù, superando l’amore che ormai lo lega ad essa. Nella immagine della tribù che, schierata sul bordo della spiaggia del lago, vede allontanarsi il barcone che porta via il suo stregone e in coro invoca di non essere abbandonata, che sembra che dica : “Titti non ci lasciare”, vi è tutto quanto si possa dire sul bisogno d’amore, ma è la interpretazione di Manfredi, da grandissimo attore, che aggiunge a questa scena profondità e bellezza. Si vede sorgere lentamente la commozione, la tenerezza, il dolore del distacco nello sguardo nostalgico e intenso rivolto alla riva e che infine determina l’esplosione dell’amore, il salto con cui si butta in acqua e ritorna a nuoto verso coloro che ormai possiamo chiamare i suoi figli.

Tutti noi uomini, forti o deboli, parte del potere o della massa, siamo schiavi dei nostri impulsi e delle forme che essi assumono nella realtà sociale, delle fedi e dei pre-giudizi, infine delle illusioni e delle speranze che ci impongono. E per primo fu un poeta a comprendere che per molti uomini un attimo solo di felicità è concesso, l’attimo in cui dura l’illusione d’amore. E ad esso si rivolse implorando: “attimo fermati! Sei bello! [5]. Perciò, malgrado la scienza ci avverta della piccolezza del cuore dell’uomo, non possiamo non sognare che vi siano uomini che sentano come proprio il dolore degli altri, che si buttino a nuoto nel mare della vita per raggiungerli.

 

 

Riferimenti

[1]-Firrao S. Il processo di associazione stimolo-risposta nelle reti stratificate. Relazione tenuta al 5° meeting sulla neuroriabilitazione, Clinica Neurologica della 2a facoltà di medicina, Napoli, 6 ottobre 1989
[2]-Firrao S. La repressione degli impulsi in Il potere e la paura, ISBN 978-1-4716-1821-5
[3]-Hall Calvin S.Lindzey G.La teoria dello stimolo-risposta, in Teorie della personalità, Cap.11, Boringhieri, Torino, 1970
[4]-Marcuse H. L’uomo ad una dimensione, Einaudi, Torino, 1968
[5]-Goethe J.W. Faust. Feltrinelli. Milano, 2005.

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